Eccoci nella seconda puntata di metamodernismo nel cinema! Anche questa volta vi propongo delle slide con la funzione di sintetizzare quello che andremo a scoprire oggi. Partiamo con la prima:
L’opera cinematografica che ho scelto per voi questa volta è The Grand Budapest Hotel, del 2014, appartenente alla corrente metamodernista del Cinema Eccentrico Americano, anche detto Quirky. La storia è ambientata in uno Stato europeo immaginario e si svolge tra le due guerre mondiali, mentre incombe minacciosa l’ascesa del fascismo. In un flashback, vengono raccontate le avventure comiche di Gustave, propietario del rinomato Grand Budapest Hotel, e del fattorino Zero, intenti ad impossessarsi di un dipinto di grande valore.
Queste sono le caratteristiche del movimento che il film celebra. Rilevante è, ancora una volta, l’oscillazione fra componenti del cinema pre e post 1945. L’obiettivo in questo caso è sicuramente l’appropiarsi del quadro, ingiustamente trattenuto da un parente di Madame D., defunta, che lo ha lasciato in eredità a Gustave. È questo il motivo concreto delle azioni compiute dai personaggi durante tutta la vicenda, paragonabile al ruolo ricoperto dall’oggetto della queste (ricerca) nei romanzi arturiani nel medioevo (es. il Sacro Graal).
Come detto già più volte, uno dei registi che meglio ha saputo sviluppare nelle sue opere la nuova estetica dell’era postmoderna è Wes Anderson, autore, appunto, di The Grand Budapest Hotel, il quale può essere giustamente definito il suo capolavoro.
La psicologia ha dimostrato più volte l’importanza delle variazioni cromatiche dell’ambiente che ci circonda nella formazione delle nostre idee su di esso. Tale consapevolezza viene riproposta da Anderson nella scelta stilistica di attribuire colori diversi alle persone e ai luoghi del film in base a ciò che rappresentano, generando un effetto di associazione immediata, a volte anche inconscia, che ci porta a capire subito nelle varie scene con chi abbiamo a che fare.
Prima ho parlato del quadro come punto fisso attorno al quale ruotano tutte le peripezie messe in scena… ma non è l’unico, e anzi, forse è il meno importante: ora parleremo dei temi fondamentali del film. Primo fra tutti, l’amicizia fra i due protagonisti, che nessuno dei due probabilmente si sarebbe aspettato quando si sono conosciuti, a dimostrazione di quanto la vita possa stupire.
In un modo o nell’altro, la complicità fra i due è un ideale di rapporto umano a cui, penso, tutti dovrebbero aspirare. Non so voi, ma questa è una delle tematiche che più apprezzo nel cinema, tanto più quando viene approfondita al livello di quella fra Gustave e Zero, che culmina in una vera e propria “dichiarazione d’amicizia” reciproca, circa a metà del film. Ancora oltre è l’altro grande rapporto chiave del film, quello fra Zero e Agatha, la sua fidanzata.
Faccetta triste (ahia, andava tutto fin troppo bene). Ricordiamoci per prima cosa che i tempi stanno cambiando, come l’ascesa del fascismo preannuncia. Ed è proprio per mano sua che Gustave morirà (lascio i dettagli per l’ultimo tema) alla fine della loro avventura, quando il quadro è finalmente loro.
Anche Agatha se ne andrà, due anni dopo, per una malattia dovuta alla guerra, portando via con sè il figlio appena nato suo e di Zero. L’Hotel, nel momento in cui la storia viene raccontata, ovvero negli anni 60, è ormai lontano dai suoi tempi d’oro. In una parola, nostalgia, accompagnata dalla dura realtà da accettare: tutto passa. Questo vuol dire però che tutto sia talmente effimero da non lasciare traccia del suo passaggio?*
Il gesto estremo, ultimo grande climax del rapporto fra i protagonisti: Gustave muore per mano degli antagonisti (e questo lo sapevamo già), ma muore salvando Zero dagli squadroni della morte, e per questo si becca uno sparo. Il proprietario del Grand Budapest ricambia così il giovane lobby boy della sua lealtà.
La scena con cui vi vorrei lasciare è questa: l’anziano Zero, a cui è stato lasciato in eredità l’Hotel, ormai in rovina, parla con uno degli avventori, ricordando i suoi affetti, e da un momento all’altro si mette a piangere, affermando di non poterne fare a meno. Proprio le sue lacrime, credo, siano il simbolo dell’opera di cui ho parlato nell’articolo. Gustave, Agatha, il Grand Budapest, il quadro… no, non sono mai passati, non senza lasciare il loro segno, indelebile nel cuore di Zero. Questa è la mia risposta alla domanda di prima*, e così vi saluto.
Lascia un commento