“L’anibene”, una poesia metasemantica

poesia metasemantica

L’anibene


S'animota l'anibene
orché perce
versole umali,
taqqueo cormina
neltro cana,
e sbiscia:
“Stranentoso estere!
Si me catturende
tralle zampani
m’angivora,
nu roglio mofrire!”

Cos’è la metasemantica

Immagino ci abbiate capito poco, vero? Può sembrare strano, ma se risulta difficile riuscire a parafrasare questi versi non è l’autore ad aver perso il senno o la capacità di esprimersi. Chi li ha scritti voleva proprio rendere più complesso il solito modo di comprendere il significato poetico. Il trucco qua non sta tanto nello scoprire cosa vogliano dire, quanto darci noi lettori un senso, anche se, come avrete intuito, abbiamo ancora dei punti di riferimento sparsi per il testo, soprattutto nel suono delle frasi. Nonostante la presenza di parole inventate, sembra sempre di leggere termini italiani, magari simili nella loro struttura ad alcuni presenti nel vocabolario.

Si tratta di una poesia metasemantica, composta dal sottoscritto.

Al fine di analizzare il termine, vediamo ora di compiere una delle operazioni utili a livello di semantizzazione delle parole, appunto: dividerle in altre più semplici. Bene, “semantica” si riferisce alla disciplina linguistica che si occupa del linguaggio guardando al suo significato, “Meta-” complica leggermente la situazione…

Nel primo articolo del blog, parlando di come mai avessi deciso di chiamarlo proprio Meta Me, delineavo i vari significati del prefisso in questione, fra cui una fondamentale per comprendere l’accezione assunta in questo caso. Scrivevo:

“Meta- in alcune opere filosofiche recenti […] richiama il concetto di metaxy, il quale deriva dal Simposio di Platone e indica una via di mezzo fra due poli opposti che va oltre questi ultimi, creando qualcosa di nuovo.”

È proprio “oltre lo studio del significato” la perifrasi migliore per indicare l’etimologia che stavamo cercando.

Difatti la metasemantica, citando il suo studioso Fosco Maraini (Firenze, 1912 – 2004), consiste nell’utilizzo di un lessico privo di significato, ma dal suono, sintassi e grammatica familiare alla lingua a cui appartiene il testo. Partendo da elementi simili risulta possibile attribuire nuovi significati.

Storia e citazioni nella letteratura

Probabilmente una proto-metasemantica esiste dalla nascita del linguaggio, circa 50/100 mila anni fa o ancora prima, anche solo nei giochi linguistici dei bambini. In tempi ben più recenti troviamo esempi evoluti nella lingua inglese, tra cui il poemetto Jabberwocky (1871) scritto da Lewis Carroll, autore di Le Avventure di Alice nel Paese delle meraviglie. La strofa iniziale recita:

Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.

Si tratta di parole prevalentemente onomatopeiche, che compongono una nuova lingua utilizzando la tecnica del nonsense.

Successivamente, con l'opera Gnòsi delle Fànfole (1966) di Maraini assistiamo al primo studio in merito. L'introduzione riporta:
"Il linguaggio comune [...] mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa. Nel linguaggio metasemantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole [...] . Potrei anche aggiungere che la poesia metasemantica è fortemente bipolare. Tutta la poesia – si capisce! – è bipolare. Hai un testo e hai un lettore; dalla crasi dei due sprizzano, oppure no, delle scintille. Ma nel linguaggio normale la bipolarità è meno caratteristica." Una descrizione non molto accademica per come di solito si intende, diciamo, in grado però di cogliere l'aspetto ludico di quanto teorizzato.

Ad oggi, l'esempio per antonomasia è la poesia Il Lonfo, composta sempre dallo scrittore fiorentino, celebre per la recitazione da parte di Gigi Proietti del 2005 durante il programma televisivo Parla con me, in onda su Rai 3. I primi versi racchiudono già appieno la sua concezione di metasemantica:
Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

Una posizione “in bilico” fra post- e metamodernismo

Di primo acchito, la poesia metasemantica può sembrare propriamente un’invenzione postmodernista. Si sviluppa nel secondo Novecento, insieme a tale corrente di pensiero; ne abbraccia la decostruzione del significato, relativamente alla semantica, e l’ironia scettica verso quel rapporto fluido lettore-testo di cui parla Maraini. Le grandi narrazioni, quali l’arte e l’estetica come portatrici di un messaggio chiaro, vengono dissolte nell’incertezza di parole confuse.

Tuttavia, un occhio più attento riesce a scorgere molteplici collegamenti anche al metamodernismo. Se non ci limitiamo a considerare la poetica alla stregua di comunicazione razionale noteremo che i testi individuati precedentemente abbiano ancora tanto da trasmettere. Anzi, esplodono di emozioni, e di quel sublime (neo)romantico indagato in altri articoli; i quali vengono esplorati nella loro intersoggettività, una posizione intermedia fra soggettività e oggettività. Chi li legge partecipa quindi alla creazione di un senso irrazionale, in parte condiviso perché parla all’intuizione primordiale dell’essere umano, lo stesso con cui ho immaginato si dilettassero i giovani homo sapiens già millenni orsono.

Per ritornare ai discorsi precedenti, ritroviamo la metaxy innanzitutto nell’accentuata bipolarità di tale forma d’arte, il cui contenuto oscilla fra le parole e la mente che le interpreta, emergendo grazie alla loro complessa interazione. Inoltre, esso stesso si muove tra decostruzione e ricostruzione della semantica.

Spiegazione e tematiche

Attraverso L’anibene, ho voluto sottolineare ulteriormente la presenza del metamodernismo, introducendo, oltre alla giocosità ironica e i sentimenti che ne derivano, un tema sincero legato alla ragione, deducibile dalle frasi utilizzate. È celebre ormai su Meta Me: la somiglianza fra “umano” e “animale”, connessa alla corrente filosofica del post-umanismo.

Il componimento, a versi liberi, ricorda l’ermetismo in virtù dell’enfasi posta sulle singole parole, scelte accuratamente. La maggioranza può essere letta in un duplice modo, visto che consistono nella fusione di due diverse realmente esistenti in italiano: una dal punto di vista dell’umanità, e la seconda dalla prospettiva degli altri animali. O meglio, degli altri animot, termine utilizzato dal filosofo postmodernista Jacques Derrida per indicare un insieme eterogeneo di esseri viventi accomunati da una categorizzazione linguistica. Preferibile, secondo lui, all’utilizzo di espressioni che circoscrivano una categoria univoca, senza enfatizzarne le differenze interne. Anche perché la correlazione fra considerarli tutti allo stesso modo e pensare di poterne disporre come si vuole è presto identificata…

Proprio il verbo “animotare” costituisce l’inizio, per indicare un significativo elemento in comune della classificazione derridiana: il movimento, soprattutto al fine tutelare la propria sopravvivenza. Ad “animotarsi” è, appunto, l’”anibene”, ossia l’animale non più concepito come amorale, a differenza dell’uomo, ma in grado di mostrare comportamenti proto-virtuosi volti al raggiungimento del fine tipico della sua specie.

La parte centrale continua impostando la narrazione che vede un essere umano, probabilmente primitivo, o una qualsiasi creatura senziente, cercare riparo per evitare di essere visto/a da un predatore. I due punti di vista si confondono tra loro e portano lo stesso messaggio, tanto che alla fine risulta difficile capire se chi da la caccia sia un nostro antenato od una belva feroce; ma c’è una grande differenza? Non credo, sinceramente.

Segna il culmine la fine, dove la preda, nascosta ma spaventata, esprime la “volontà” comune ad ogni forma di vita: non morire, e non soffrire, nel caso di alcune maggiormente complesse; da cui “mofrire”. Un elemento davanti al quale non esistono barriere speciste di nessun genere, o bisogna proprio inventarsele. Il fondamento della compassione universale che professano alcune filosofie di vita e religioni, a partire dal buddismo fino ad arrivare all’etica metamoderna.

Conclusione: (meta)semantica

Una lettura de L’anibene è in grado, almeno spero, di interagire con la sfera irrazionale, tramite suoni che richiamano il legame ancestrale alla natura, da cui proveniamo. Immagino sia accompagnata da un senso di mistero verso qualcosa in grado di sconvolgere l’esistenza, dovuto, ad esempio, alla presenza ripetuta di punti esclamativi. Si tratta quindi di metasemantica a tutti gli effetti. Tuttavia, non finisce qui; abbiamo anche la ricostruzione della semantica, traducibile nei ragionamenti filosofici che ricaviamo dal suo lessico inusuale.

Che sia quindi possibile parlare di (meta)semantica, un ulteriore livello di metaxy, fra i due modi di scrivere? Io, ovviamente, credo di sì, e penso debba costituire una delle frontiere nella poetica metamoderna in Italia, al fianco del neo-ermetismo e del post-umanismo di Mariangela Gualtieri. Le cui sensibilità, guarda caso, sono ritrovabili proprio in quanto ho voluto proporvi poco fa.

La poesia presenta la straordinaria capacità di collocare in poche righe una miriade di significati che si articolano dal personale all’universale, dalla forma al contenuto, dal sentimento alla filosofia. Esistono varie modalità di intrecciarli fra loro; ciò che vorrei aver fatto oggi è scoprirne, almeno in parte, una nuova, guardando ancora oltre sulle spalle dei giganti del passato.


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